Il direttore Assomac, Roberto Vago, traccia il consuntivo di Simac Tanning Tech e delinea le sfide che il settore dovrà affrontare per confermare il ruolo che gli compete a livello internazionale.

Roberto Vago

“Il Simac Tanning Tech (STT) dello scorso settembre ha segnato l’inizio di una nuova era”, dichiara Roberto Vago, direttore di Assomac, l’associazione dei costruttori italiani di tecnologie per calzature, pelletteria e conceria organizzatrice dell’evento. Continua il direttore: “È stata un’edizione coraggiosa, la prima svoltasi in presenza insieme a tutta la filiera – Micam, Mipel, Lineapelle – e che ha lanciato un forte segnale riguardo la voglia dell’intero comparto di ripartire e, per l’Italia, di continuare a voler giocare un ruolo di riferimento internazionale”. Se in passato questi eventi erano momenti di incontro, oggi, nel caso di STT, sono anche importanti momenti di informazione riguardo le differenti evoluzioni tecnologiche, sia di prodotto che di processo. “Un tema cruciale che sia la politica sia le imprese devono tenere al centro delle loro riflessioni. Oggi non basta più proporre al mercato singole tecnologie affidabili e di qualità, ma servono sistemi certificati che, grazie all’innovazione digitale, siano sempre più in grado di assicurare misurabilità e tracciabilità dei processi produttivi. Il tema del futuro, a cui prepararsi fin da ora, riguarderà il poter definire in modo certo, certificato e sicuro dove e come nasce un prodotto, qual è il suo ciclo di vita, e quali saranno le sue prospettive di sostenibilità a fine vita”.

La sostenibilità è sempre più il tema chiave: quali conseguenze comporta per il settore?
“Nel 2050 è previsto che 9,5 miliardi di persone abiteranno la Terra. Ovviamente il numero delle calzature e degli accessori moda crescerà di conseguenza e crescerà indipendentemente dal fatto che noi le si faccia belle o brutte. I consumi lieviteranno, in particolare nel settore moda e in quello alimentare. Ottimizzare i complessi produttivi e, quindi, ottenere prodotti di qualità con scarti più bassi, consumi energetici contenuti, e soprattutto con un limitato utilizzo delle risorse, credo sia una delle scommesse più importanti.
Dal punto di vista delle nostre imprese, invece, direi che la fiera ha segnato l’evidente presenza di un numero selezionato di clienti alla ricerca di soluzioni tecniche (e non solo) per la sostenibilità a 360°. Inoltre, va segnalato come la pelle non sia più l’unico elemento vitale all’interno del ciclo produttivo del settore, bensì uno dei tanti materiali utilizzati dalla filiera. Per tutta una serie di ragioni, fra cui il prezzo che negli ultimi sei mesi è quasi raddoppiato rispetto al periodo di inizio pandemia, quando era sceso ai minimi storici. Per noi sarà importante mantenere alta l’attenzione su questo materiale, ma anche aprirci ad alternative”.

Come deve cambiare il modello produttivo per adattarsi al mutato scenario?
“La Cina, che siamo stati abituati a chiamare ‘la fabbrica del mondo’, oggi si propone come costruttrice di soluzioni. Ha deciso di creare dei propri standard qualitativi interni ed esportare questi suoi modelli nel mondo. Ciò comporta delle conseguenze sia sul mercato interno cinese, sia sui Paesi che la Cina è in grado di influenzare – penso all’Africa, per esempio. Se, fino a oggi, la normazione in materia è stato uno dei temi che ci ha visti primeggiare a livello internazionale, e ci ha visti protagonisti nel definire sia gli standard di sicurezza, sia gli standard di qualità, il nuovo corso cinese potrebbe mettere in crisi il nostro primato e, sfruttando il dumping normativo, alzare nuove barriere non solo a sfavore dell’Italia, ma anche di tutta l’Europa. I cinesi hanno annunciato che il nuovo made in China diverrà operativo nel 2025. Praticamente domani mattina. Tempi ben più stretti rispetto ai 12 anni che noi abbiamo impiegato per metabolizzare i regolamenti Reach. Quando accadrà, il made in Italy rischia di essere messo notevolmente in difficoltà. 
Ecco perché ASSOMAC ha ripensato il messaggio che vuole trasmettere al mercato. Non più solo made in Italy, ma un più completo “made with Italian technology”. È il mantra che abbiamo inserito nel nuovo sito associativo, spostando il focus dal prodotto al processo. 
Per rispondere alla domanda iniziale: dobbiamo trasformarci da produttori di macchine a produttori di sistemi. Sistemi integrati in grado di fornire un servizio unico, innovativo e completo a chi li adotta. Rendere più articolata, complessa e completa l’offerta tecnologica italiana, coinvolgendo la filiera a monte e a valle, è l’unico modo per non soccombere. Rimanere semplici costruttori di macchine ci espone troppo al rischio di venire schiacciati dalla concorrenza asiatica”. 

Come si trasformerà STT per andare incontro alla trasformazione del mercato?
“Credo e mi auguro possa essere un punto d’incontro non solo per la tecnologia tradizionale. Spero diventerà una fiera inclusiva, capace di allargare i propri orizzonti anche a tematiche e settori limitrofi che aiutino la crescita e lo sviluppo del nostro comparto. Il modello su cui punteremo è quello phygital, visto che sempre di più gli operatori si muoveranno solo a fronte di specifiche necessità: un mix digitale e fisico che andrà reinventato, non esistendo un modello pregresso già definito. Avvalersi di nuovi strumenti, del resto, è l’unico modo per continuare a presidiare ed essere protagonisti sui mercati. Non basta più prendere la propria valigetta e partire, bisogna dotarsi di nuove soluzioni capaci di servire al meglio i nostri interlocutori”.

Di quali aspetti devono tenere conto le imprese italiane per restare protagoniste del mercato?
“Essenzialmente due. Il primo è l’aspetto anagrafico. Oggi chi dirige, gestisce e sviluppa nuovi sistemi e modelli produttivi ha un’età media, soprattutto nei paesi del Far East, inferiore ai trent’anni. Persone dalle capacità digitali completamente diverse da chi si occupavo delle medesime questioni in Europa anche solo qualche anno fa. Tenerne conto dovrebbe far riflettere le aziende italiane sulle risorse umane da coinvolgere nelle proprie imprese.
Il secondo aspetto è non dare per scontata la nostra primazia nel settore. Siamo bravi a realizzare soluzioni tecnologiche, ma dobbiamo, giorno per giorno, ancora e di nuovo conquistarci il primato che ci compete, puntando su digitale e sostenibilità, i due temi al centro della nuova evoluzione e trasformazione dei sistemi produttivi di qualsiasi tipo”.

Non avendo le dimensioni delle aziende cinesi, le nostre imprese dovranno imparare a collaborare: pensa che in Italia si sia pronti a superare il consueto individualismo?
“Io credo sia una strada a senso unico: o ci si mette insieme – e le formule possono essere varie – o nessuno si salva da solo. C’è una parola, di cui si è abusato ultimamente, che mi lascia perplesso: ‘resilienza’. Secondo la mia formazione tecnica, la parola resilienza viene utilizzata per determinare la caratteristica fisica di un prodotto: la sua capacità di adattarsi alle condizioni in cui si trova. Nei materiali a memoria di forma, l’adattamento implica poi un ritorno alle sue condizioni di partenza. Questa, secondo me, è la parte negativa del termine che non sarebbe giusto applicare al nostro settore. Se dal punto di vista della reattività le nostre imprese si sono dimostrate molto resilienti, perché si sono adattate alle condizioni ambientali della pandemia, d’altro canto le invito a non credere di dover tornare a come e dove erano prima del Covid. Temo sarebbe un gravissimo errore. È una strada a senso unico quella che abbiamo imboccato: vi ci siamo inoltrati per mille ragioni – e potremmo discutere per ore di chi siano le colpe piuttosto che le responsabilità – il dato di fatto è che non possiamo più permetterci di ripercorrere questo sentiero a ritroso, dobbiamo solo andare avanti e cogliere le possibilità evolutive che ci vengono offerte”.